Dopo anni trascorsi dalla Confraternita a mantenere vigile l’attenzione sullo speco di san Michele, con continui interventi in ogni sede istituzionale e occasione popolare, almeno uno dei sentieri di accesso all’antico speco è stato reso più agevole e percorribile a quanti vogliano farvi visita, grazie all’azione dell’Amministrazione Civica. L''iniziativa della Confraternita verso la risoluzione della situazione di abbandono dello speco dedicato a S. Michele Arcangelo. ha trovato finalmente un primo punto di approdo. Non rimane che continuare a sollecitare e promuovere quei necessari interventi di restauro e conservazione dello speco per evitare il progredire del degrado, cosa di cui continueremo a farci sicuramente carico.

 

Lo Speco di San Michele
Celato agli sguardi indiscreti, al piede della ripida rupe lavica che sorregge Nemi, sta lo speco di San Michele.  Silenti alberi conservano gelosi la sua storia millenaria.  Piccolo gioiello di semplice fede e arte, ci riporta all’avvento della cristianità nella zona del nemus aricinus i cui antichi fasti pagani trovano ancora eco nei grandiosi ruderi del tempio di Diana Nemorense e nel museo delle navi di Caligola, posti nella valle, più in basso, sulle rive del lago.
La lapide acrostica del V secolo, commemorativa di Onesimo, e resti di sepolture cristiane a fossa rinvenute nella zona delle antiche mole presso la fonte Egeria e in altre località intorno al bacino lacustre, ci testimoniano questa incipiente vita cristiana in quella Massa Nemus donata da Costantino alla cattedrale di Albano; ci confermano che il sito nemorense ha visto fin dagli albori del cristianesimo questa presenza di cui lo Speco stesso rimane testimonianza preziosa, anche se successiva.
Le origini della dedicazione dello speco all’Arcangelo non ci sono note.  Certamente la diffusione del culto Micaelico avvenne nel Centro Italia già prima del sec. VIII, proveniente dal Sud della penisola (Gargano) e dalle aree d’influenza longobarda, ma mutuato dall’oriente cristiano. Tipicità principale di questo culto è la consacrazione all’Angelo di antri e grotte sotterranee, ma anche di vette e luoghi elevati.  Esso trova nel circondario del lago, tutti gli elementi propri della tradizione che ci dicono le ragioni dell’intitolazione in nemorensi dello speco all’Arcangelo Michele: lo scenario naturalistico offerto dalla lussureggiante vegetazione boschiva; la lotta contro il demonio rappresentato dagli antichi culti -non indifferente alla tradizione che chiamava i resti del tempio di Diana le grotte del diavolo-, che vede Michele quale combattente armato in difesa del popolo; l’area cimiteriale prossima al sito, che richiama le funzioni dell’Arcangelo, riconosciute dal culto e dalla liturgia, di psicagogo e psicopompo; la presenza della sorgente Egeria -acque riconosciute termali e curative-, che riporta alle acque risanatrici della piscina di Betzaetà (cfr Gv 5,4) e alla liturgia espressa nell’inno Akatisto, richiamando cosi l’ulteriore funzione, evidente soprattutto nella tradizione bizantina, di Michele quale medico celeste.  Tali funzioni rivestono tutte un compito esaugurante nei confronti dei culti antichi presenti nella valle e giustificano ampiamente il sorgere della consacrazione all’Angelo Michele dello speco, anche in forza del significato teoforico del suo nome: Mi-ka-El  - Chi è come Dio?
Una delle prime testimonianze documentali che esplicitamente riferisce del sito è la bolla di Lucio III del 2 aprile 1183, con cui si assegnava il possesso di Nemi ai monaci di S. Anastasio ad Aquas Salvias in Roma.  Qui appare ricordato con le altre chiese presenti nel territorio “... Castrum quod dicitur Nemo et ecclesiam S. Mariae, S. Angeli, S. Joannis et S. Nicolai…”.  Usato come luogo di culto nei tempi susseguenti -prova evidente del permanere della frequentazione sono gli affreschi realizzati al suo interno sul finire del 1400-, con l’arroccarsi delle case intorno al Castrum e le successive trasformazioni del paese, il posto divenne ancor più isolato e luogo di meditazione e fuga mundi. Non sappiamo con precisione da quando, ma è certo che la chiesetta passò sotto la gestione diretta della Chiesa parrocchiale, come ricordano le relazioni delle “Sacre Visite Pastorali” che avvennero nel tempo a partire dal Concilio di Trento.  Dalla prima meta del 1600 vi cercarono vita solitaria e se ne presero cura dei Romiti che, nominati dal Parroco e approvati dall’Ordinario diocesano, abitarono in un attiguo eremo, mantenuto e restaurato fino agli inizi dell’Ottocento.  Di questi romiti che vi si sono succeduti, provenienti da più parti d’Italia, dalla Francia e dalla stessa Nemi, abbiamo poche notizie desunte dai libri dell’archivio parrocchiale, ma sappiamo che, pur dediti alla vita eremitica, frequentavano ogni domenica la chiesa e oltre a dedicarsi all’agricoltura dei piccoli appezzamenti di terreno appartenenti allo stesso speco di S. Michele, ricevettero l’incarico di esercitare lavori di pazienza tra i quali quello di trascrivere i libri dei catasti della Comunità Nemorense.
La chiesetta era officiata per l'8 maggio e il 29 settembre, per le feste di S. Michele, e il popolo vi si è recato in processione fino allo scorcio del 1700. Qui è cominciato l'abbandono con la seguente asportazione di alcune opere, fra le quali il bassorilievo marmoreo con l’effige dell’Arcangelo, pur rozzo -a dar credito a un tardo documento di archivio- e un’acquasantiera di marmo posta all’ingresso. La demolizione del romitorio nell’ultimo quarto dell’Ottocento –disegni di pittori del Gran tour e una incisione nel 1870 del Ciceri ancora lo evidenziano- e la concessione in affitto dei terreni circostanti procurarono anche lo scempio dell’interno dello speco, con l’imbiancatura degli affreschi, poiché venne utilizzato come rimessa di animali e attrezzi. Con l’abbandono ha l’avvio anche il fiorire di leggende, come quella secondo la quale in esso vi avrebbero trovato rifugio i primi Pontefici, per porsi al riparo dalle persecuzioni.
Un doppio accesso conduce allo Speco: il più agevole vi porta per uno stradello che ha ricevuto ultimamente un riadattamento, ma che rimane stretto e irto, proprio perché s’inerpica, a partire dai resti delle antiche mole giù in basso, presso la fonte Egeria, sulla rupe fino a oltre mezza costa, proprio sotto Nemi; l’altro, sentiero “da capre”, vi scende invece dal giardino pubblico, al di sotto della piazza del paese. Percorrendo tali ardui sentieri si giunge ad un’ombrosa radura, addossata alla roccia lavica, tutta ingombra di macigni e vegetazione. Su una parete in muratura si apre un antico ingresso arcuato, ancora chiuso con un cancello collocato dalla Regia Soprintendenza ai Monumenti nel 1917. Scendendo un gradino in peperino, si accede alla retrostante caverna naturale larga circa otto metri e profonda eguale misura, ma di un’altezza non superiore ai tre metri: per questo essa si presenta come schiacciata dalla volta sulla quale, in vari punti, resta traccia di decorative teste di cherubini in stucco, di gusto barocco, nonché profonde crepe derivate dai terremoti capitati nel tempo. Tutto l’ambiente si presenta carico di umidità e tracce di calcio affiorano dalle pareti sulle quali, in più punti, sono presenti evidenti vegetazioni di microalghe.
Interamente lastricata con grandi rettangoli di peperino, la caverna presenta ancora le tracce delle sistemazioni che ha via via ricevute nel corso dei secoli; in vari punti delle pareti sono incavate delle nicchie a mensola, utilizzate sicuramente per porvi le lampade necessarie all’illuminazione. Suddivisibile in due porzioni, la prima, più ampia, è l’aula riservata al popolo: presenta a destra il vano di una porta, chiusa oggi da un muro di pietre poste a secco, che conduceva in ambienti, ora pieni di terriccio proveniente dalla naturale erosione del sovrastante suolo, una volta annessi all’eremo. Tutt’intorno a questa prima aula corre un sedile in muratura ricoperto di lastre in peperino. Di fronte alla porta di accesso, ma leggermente spostata a destra, si apre una seconda porzione, il presbiterio, separata dal primo da un parapetto in muratura piena. Quest’ambiente, che è meno largo e ha una altezza più ridotta all’altro, è formato da tre absidi sicuramente frutto di scavo; anch’esso presenta dei sedili che, a partire da dietro la balaustrata, a destra e sinistra, giungono fino in fondo alle due absidi laterali. Il fondo di queste presenta tracce evidenti di decorazioni successive, anche se nascoste dalla calce.
Nell’abside centrale di questa tricora è collocato un ciborio, che sovrasta un altare: poggia su di un piano diversamente lastricato con irregolari frammenti di marmi antichi. Al centro del timpano unito alla volta con un riempimento a calce, è incavata una croce di forma bizantina, traccia di una tarsia marmorea asportata.  All’architrave fanno da supporto quattro colonne poggianti su basamenti eguali: le anteriori hanno i capitelli di ordine corinzio, mentre le posteriori sono di ordine ionico con le volute trasformate per un’accentuazione decorativa a fiorali. Che si tratti di materiale di reimpiego proveniente dai numerosi siti archeologici della zona lo mostrano con forte evidenza sia il diverso diametro delle colonne, sia una lastra di sarcofago, con il caratteristico ornamento a strigili, che è utilizzata a chiudere in alto il tetto del ciborio, immediatamente sotto la volta.
L'altare a mensa, di tipo bizantino, è composto di una semplice lastra di granito sorretta da quattro colonnine marmoree senza base, sormontate da capitelli romani di ordine composito. Su di esso si eleva un rozzo dipinto che ha sostituito il bassorilievo marmoreo dedicato a S. Michele. Il ciborio e l’altare corrispondono a due epoche distinte: la prima è data dall'altarino che, per la forma, va collegato alla cultura religiosa bizantina del sec. IX-X; la seconda epoca è fornita dal ciborio, realizzato successivamente in stile romanico frammentario, che può essere collocato tra il secolo XII ed il secolo XIII.
I reperti figurativi presenti sulle pareti dello Speco corrispondono ad uno stile successivo, databile al XV sec. Infatti è sullo scorcio del Quattrocento che, a spese di alcuni devoti, le pareti della chiesa ricevettero una decorazione iconografica, purtroppo attualmente in parte nascosta sotto uno strato di calce come pure in più punti imbrattata da vandali.
L'affresco più appariscente per dimensioni e qualità della fattura, nonchè maggiormente conservato, è quello posto sul pilastro a destra di chi entra. In esso, su uno sfondo rosso fiorato di pervinche arancio e azzurre a modo di damascato, circondato da una cornice dipinta, è raffigurato San Pietro con le simboliche chiavi nella mano sinistra, mentre con l’altra regge sul petto il libro del nuovo Testamento. Sulle dipinte pagine aperte, si legge una frase tratta dalla prima lettera di Pietro (vv, 8-9): “Sobri estote et vigilate: quia adversarius vester diabolus, tamquam leo..” (Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone…affamato cerca prede). All’apostolo, a sinistra, è affiancato S. Bernardino da Siena, che tiene sul petto una tabella in cui risplende il monogramma di Cristo, IHS. Sotto l'affresco corre ancora ben visibile parte dell’antica iscrizione a caratteri gotici che ci offre indicazioni circa il soggetto e l’autore, mano di un possibile seguace della scuola di Antoniazzo Romano: Angelus Saccus fieris figuras istas praecepit Galilei Petri atque Bernardini Senensis…. L’iscrizione si interrompe purtroppo nel punto ove l’intonaco e la pittura sono andati completamente perduti.
Resta a fianco di questo affresco parte della figura di S. Sebastiano col corpo trafitto dai dardi. Vi è memoria anche di una porzione di affresco raffigurante l’Arcangelo Michele che trovava posto posto subito dopo il S. Sebastiano, immediatamente a lato della porta di accesso del quale però attualmente non resta traccia.
Nel presbiterio si trovano le figurazioni più espressive e tra esse ad attirare maggiormente l’attenzione è quella che copre l'intera abside in cornu evangelii: il dipinto rappresenta il Signore in croce tra la S. Vergine e S. Giovanni Evangelista, mentre il devoto commissionario, da una parte della croce, e la moglie con le due figliole dall'altra, nei caratteristici costumi dell'epoca, pregano piamente in ginocchio a mani giunte.  Il dipinto manifesta un indubbio influsso bizantino, evidente, oltre che nei panneggi e nel teschio adamitico posto nella cavità ricavata nello scoglio su cui è piantata la croce, soprattutto nelle iscrizioni didascaliche greche e latine presenti ai lati di ciascuna figura. La caratteristica più importante dell'affresco consiste tuttavia nello sfondo, che non riproduce il convenzionale paesaggio del Calvario, ma quello insolito del lago di Nemi, ben riconoscibile dietro la croce, e che, sul margine, immediatamente a fianco di S. Giovanni, sovrastato nel fondo dal monte Cavo, riporta il paese di Nemi nel suo impianto quattrocentesco. Si vede la cilindrica torre merlata al centro, in sistema con le due torri angolari poste ai lati della paratia murata del castrum. Più sotto è figurato l’antico paese sul quale si staglia un alto campanile, e una appariscente costruzione circolare coperta da una grande cupola; tutto difeso da poderose mura. L’iscrizione che corre alla base del dipinto ce ne indica la datazione e il committente: Giovanni Baraondo, 1471. Hoc Baraundus opus statuit tibi Christe Ioannes ut protega semper se atque suam sobolem An[no] D[omin]i MCCCCLXXI
Nell'abside in cornu epistulae si trova l'affresco raffigurante la Vergine, sorreggente un paffuto Bambino vestito di tunica rossa che tiene con la mano sinistra una sfera, mentre la destra è alzata in atto di benedire. Al suo fianco sta ancora il martire Sebastiano, che regge in una mano le frecce di cui fu fatto bersaglio e nell’altra la palma della vittoria. Della raffigurazione, sono poco evidenti i particolari. Tutte e tre le figure portano il nimbo rotondo disegnato a raggera. Ai piedi dell'affresco per tutta la lunghezza dell’abside resta su tre righe parte di un’iscrizione a caratteri gotici, la cui lettura è possibile soltanto per l’inizio della prima riga: Ha(n)c Georgettus fieri figura(m) Dalmata (?) rite p(raece)pit Matris……
Su entrambi i lati dell’arco della tricora sono presenti due figure di Arcangeli: quello alla destra è certamente Michele, impugnante una spada di fuoco; quello a sinistra, poco visibile, si può identificare con Gabriele rappresentato con un’accentuata capigliatura bionda.
Appare evidente che le pitture delle absidi, anche se coeve, non siano riconducibili alla stessa mano. Ed è plausibile gli autori non dovettero godere di grande rinomanza se, lavorando intorno al 1480, come è certo per l’affresco commissionato da Giovanni Baraondo, adoperano forme bizantineggianti ormai sorpassate.
L’eremo ovvero Speco dedicato a S. Michele Arcangelo, si trova oggi in stato di abbandono: per il carattere particolare del luogo; la non estraneità alla precedente civiltà latina; le tracce bizantine e romaniche, il primo rinascimento, il lungo tracciato storico religioso che lo ha infine investito, ne sarebbe richiesta la massima cura affinché si salvaguardi quello che rimane di un importante monumento. Poiché esso costituisce davvero un esempio unico rimastoci di quella civiltà artistico-religiosa che interseca la devozione, la ricerca individuale, la fuga dal mondo, il popolare e la leggenda.
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